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全国等级考试资料网 2022-10-19 16:57:38 76

ALESSANDRO BARICCO

NOVECENTO

Un monologo

Corretto da filuc (2002)

Ho scritto questo testo per un attore, Eugenio Allegri, e un regista, Gabriele Vacis. Loro ne hanno fatto uno spettacolo che ha debuttato al festival di Asti nel luglio di quest’anno. Non so se questo sia sufficiente per dire che ho scritto un testo teatrale: ma ne dubito. Adesso che lo vedo in forma di libro, mi sembra piuttosto un testo che sta in bilico tra una vera messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce. Non credo che ci sia un nome, per testi del genere. Comunque, poco importa. A me sembra una bella storia, che valeva la pena di raccontare. E mi piace pensare che qualcuno la leggerà.

A.B.

Settembre 1994

Per Barbara

Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa... e la vedeva. è una cosa difficile da capire. Voglio dire... Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi... Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo... la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte... magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni... alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare... e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l’aveva fatta lui l’America. La sera, dopo il lavoro, e le domeniche, si era fatto aiutare dal cognato, muratore, brava persona... prima aveva in mente qualcosa in compensato, poi... gli ha preso un po’ la mano, ha fatto l’America...

Quello che per primo vede l’America. Su ogni nave ce n’è uno. E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no... e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre c’aveva già quell’istante stampato nella vita. E quando erano bambini, tu potevi guardarli negli occhi, e se guardavi bene, già la vedevi, l’America, già lì pronta a scattare, a scivolare giù per nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua, fin dentro quel grido (gridando), AMERICA, c’era già, in quegli occhi, di bambino, tutta l’America.

Lì, ad aspettare.

Questo me l’ha insegnato Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, il più grande pianista che abbia mai suonato sull’Oceano. Negli occhi della gente si vede quello che vedranno, non quello che hanno visto. Così, diceva: quello che vedranno.

Io ne ho viste, di Americhe... Sei anni su quella nave, cinque, sei viaggi ogni anno, dall’Europa all’America e ritorno, sempre a mollo nell’Oceano, quando scendevi a terra non riuscivi neanche a pisciare dritto nel cesso. Lui era fermo, lui, ma tu, tu continuavi a dondolare. Perché da una nave si può anche scendere: ma dall’Oceano... Quando c’ero salito, avevo diciassette anni. E di una sola cosa mi fregava, nella vita: suonare la tromba. Così quando venne fuori quella storia che cercavano gente per il piroscafo, il Virginian, giù al porto, io mi misi in coda. Io e la tromba. Gennaio 1927. Li abbiamo già i suonatori, disse il tizio della Compagnia. Lo so, e mi misi a suonare. Lui se ne stette lì a fissarmi senza muovere un muscolo. Aspettò che finissi, senza dire una parola. Poi mi chiese:

"Cos’era?".

"Non lo so."

Gli si illuminarono gli occhi.

"Quando non sai cos’è, allora è jazz."

Poi fece una cosa strana con la bocca, forse era un sorriso, aveva un dente d’oro proprio qui, così in centro che sembrava l’avesse messo in vetrina per venderlo.

"Ci vanno matti, per quella musica, lassù."

Lassù voleva dire sulla nave. E quella specie di sorriso voleva dire che mi avevano preso.

Suonavamo tre, quattro volte al giorno. Prima per i ricchi della classe lusso, e poi per quelli della seconda, e ogni tanto si andava da quei poveracci degli emigranti e si suonava per loro, ma senza la divisa, così come veniva, e ogni tanto suonavano anche loro, con noi. Suonavamo perché l’Oceano è grande, e fa paura, suonavamo perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov’era e chi era. Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio. E suonavamo il ragtime, perché è la musica su cui Dio balla, quando nessuno lo vede.

"Un bel nome," disse alla fine il vecchio Boodmann, "però gli manca qualcosa. Gli manca un gran finale." Era vero. Gli mancava un gran finale. "Aggiungiamo martedì," disse Sam Stull, che faceva il cameriere. "L’hai trovato martedì, chiamalo martedì."

Danny ci pensò un po’. Poi sorrise. "è un’idea buona, Sam. L’ho trovato nel primo anno di questo nuovo, fottutissimo secolo, no? lo chiamerò Novecento." "Novecento?" "Novecento." "Ma è un numero!" "Era un numero: adesso è un nome." Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento. è perfetto.

è bellissimo. Un gran nome, cristo, davvero un gran nome. Andrà lontano, con un nome così. Si chinarono sulla scatola di cartone. Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento li guardò e sorrise: loro rimasero di stucco: nessuno si aspettava che un bambino così piccolo potesse fare tutta quella merda.

Danny Boodmann fece ancora il marinaio per otto anni, due mesi e undici giorni. Poi, durante una burrasca, in pieno Oceano, si prese una carrucola impazzita in mezzo alla schiena. Ci mise tre giorni a morire. Era rotto dentro, non c’era verso di rimetterlo insieme. Novecento era un bambino, allora. Si sedette vicino al letto di Danny e da lì non si ·mosse più. Aveva una pila di giornali vecchi, e per tre giorni, facendo una fatica bestiale, lesse al vecchio Danny, che stava tirando le cuoia, tutti i risultati delle corse che trovò. Metteva insieme le lettere, come Danny gli aveva insegnato, col dito premuto sulla carta del giornale e gli occhi che non mollavano un istante. Leggeva lentamente, ma leggeva. Così il vecchio Danny morì sulla sesta corsa di Chicago, vinta da Acqua potabile con due lunghezze su Minestrone e cinque su Fondotinta blu. Il fatto è che non riuscì a non ridere, a quei nomi, e ridendo, schiattò. Lo avvolsero in un telone e lo restituirono all’Oceano. Sul telone, con una vernice rossa, il capitano scrisse: Thanks Danny.

Così, d’improvviso, Novecento divenne orfano per la seconda volta. Aveva otto anni e si era già fatto avanti e indietro dall’Europa all’America una cinquantina di volte. L’Oceano era casa sua. E quanto alla terra, be’, non ci aveva mai messo piede. L’aveva vista, dai porti, certo. Ma sceso, mai. Il fatto è che Danny aveva paura che glielo portassero via, con qualche storia di documenti e visti e cose del genere. Così Novecento rimaneva a bordo, sempre, e poi a un certo punto si ripartiva. A voler essere precisi, Novecento non esisteva nemmeno, per il mondo: non c’era città, parrocchia, ospedale, galera, squadra di baseball che avesse scritto da qualche parte il suo nome. Non aveva patria, non aveva data di nascita, non aveva famiglia. Aveva otto anni: ma ufficialmente non era mai nato.

"Non potrà continuare a lungo questa storia" dicevano ogni tanto a Danny. "Oltre tutto è anche contro la legge." Ma Danny aveva una risposta che non faceva una piega: "In culo la legge" diceva. Non è che si potesse discutere un granché, con quella partenza.

Quando arrivarono a Southampton, alla fine del viaggio in cui Danny morì, il capitano decise che era ora di farla finita con quella recita. Chiamò le autorità portuali e disse al suo vice che gli andasse a prendere Novecento. Be’, non lo trovò mai. Lo cercarono per tutta la nave, per due giorni. Niente. Era sparito. Non andava giù a nessuno, quella storia, perché insomma, lì sul Virginian, si erano abituati a quel ragazzino, e nessuno osava dirlo ma... ci vuol poco a buttarsi giù dalla murata e... poi il mare fa quel che vuole, e... Così c’avevano la morte nel cuore quando ventidue giorni dopo ripartirono per Rio de Janeiro, senza che Novecento fosse tornato, o che si fosse saputo qualcosa di lui... Stelle filanti e sirene e fuochi d’artificio, alla partenza, come tutte le volte, ma era diverso, quella volta, stavano per perdere Novecento, ed era per sempre, qualcosa gli rosicchiava il sorriso, a tutti, e gli mordeva dentro.

La seconda notte di viaggio, che non si vedevano nemmeno più le luci della costa irlandese, Barry, il nostromo, entrò come un pazzo nella cabina del comandante, svegliandolo e dicendogli che doveva assolutamente venire a vedere. Il comandante bestemmiò, ma poi andò.

Salone da ballo della prima classe.

Luci spente.

Gente in pigiama, in piedi, all’ingresso. Passeggeri usciti dalla cabina.

E poi marinai, e tre tutti neri saliti dalla sala macchine, e anche Truman, il marconista.

Tutti in silenzio, a guardare.

Novecento.

Stava seduto sul seggiolino del pianoforte, con le gambe che penzolavano giù, non toccavano nemmeno per terra.

E, com’è vero Iddio, stava suonando.

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